IL WHISTLEBLOWING NON GIUSTIFICA ATTIVITÀ INVESTIGATIVE D’INIZIATIVA DEL DIPENDENTE

whistleblowing

La Cassazione, con sentenza n. 35792 del 26 luglio 2018 ha affermato che il dipendente pubblico che effettua di sua iniziativa attività investigative e viola la legge per raccogliere prove di illeciti dell’Amministrazione cui appartiene, non può invocare la tutela del whistleblowing.

La questione è nata dalla decisione di un dipendente pubblico di effettuare un accesso illecito al sistema informatico della propria Amministrazione, utilizzando l’account e le password di altro dipendente, per elaborare un falso documento di fine rapporto a nome di persona che non aveva mai prestato servizio presso l’Amministrazione, cancellandolo subito dopo la compilazione, per sperimentare la vulnerabilità del sistema.

Denunciato, il lavoratore ha dedotto la sussistenza della causa di giustificazione, anche in forma putativa, dell’adempimento del dovere, fondato sul vincolo di fedeltà che lega il pubblico dipendente all’Amministrazione derivante dagli artt. 54 e 54 bis del D.Lgs. n. 165/2001, disposizioni che prevedono obblighi di informazione finalizzati alla prevenzione di fenomeni illeciti, quali la corruzione, a cui è correlata la non punibilità, sotto il profilo disciplinare e antidiscriminatorio, del dichiarante.

A tal proposito si rammenta che l’art. 54 bis del citato D.Lgs. n. 165/2001, come aggiornato dall’articolo 1 della Legge 30.11.2017, n. 179, recante disciplina della “segnalazione di illeciti da parte di dipendente pubblico”, intende tutelare il soggetto, legato da un rapporto pubblicistico con l’amministrazione, che rappresenti fatti antigiuridici appresi nell’esercizio del pubblico ufficio o servizio.

Tuttavia la Cassazione ha sostenuto che il whistleblowing invocato dal ricorrente quale fonte di un dovere giuridico a cui lo stesso voleva ottemperare, non è applicabile al caso di specie in quanto la relativa normativa si limita a scongiurare conseguenze sfavorevoli, limitatamente al rapporto di impiego, per il segnalante che acquisisca, nel contesto lavorativo, notizia di un’attività illecita, mentre non fonda alcun obbligo di attiva acquisizione di informazioni, autorizzando improprie attività investigative, in violazione dei limiti posti dalla legge.

L’evidente limitazione dell’articolato normativo alla tutela del segnalatore e, soprattutto, la mancata previsione di un obbligo informativo, non consente di ritenerne la configurazione della sussistenza del  whistleblowing neanche in forma putativa, non profilandosi come scusabile alcun errore sull’esistenza di un dovere che possa giustificare l’indebito utilizzo di credenziali d’accesso a sistema informatico protetto – peraltro illecitamente carpite – da parte di soggetto non legittimato.

Per gli Ermellini, “in tal senso, l’insussistenza dell’invocata scriminante dell’adempimento del dovere è fondata sui medesimi principi che, in tema di “agente provocatore”, giustificano esclusivamente la condotta che non si inserisca, con rilevanza causale, nell’ iter criminis, ma intervenga in modo indiretto e marginale, concretizzandosi prevalentemente in un’attività di osservazione, di controllo e di contenimento delle azioni illecite altrui (ex multis Sez. 4, Sentenza n. 47056 del 21/09/2016 Ud. (dep. 09/11/2016) Rv. 268998, n. 11634 del 2000 Rv. 217253, n. 31415 del 2016 Rv. 267517)”.

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